SCRITTORI E GUSTO URBANO FRA SETTECENTO E OTTOCENTO
di: Francesco Iengo a cura di Mario Della Penna
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Capitolo VIII (III parte)

IL SETTECENTO E I "CENTRI STORICI"

Del 1771 è il romanzo utopico dal titolo L'an deux mille quatrecent quarante, in cui l'autore, Sebastien Marcier, plaude al fatto che il vecchio Pont-au-Change, a Parigi, non risulti più "schiacciato da misere casette", irridendo allo stesso tempo ai contemporanei, che parlavano sempre di "abbattere le catapecchie ma non lo facevano mai", e definisce "molto saggia" la politica delle demolizioni (203).

Qualcosa di indubbiamente diverso affiora invece in Sade, a Roma nel 1775 (ovvero trentacinque anni dopo de Brosses, e mezzo secolo dopo Montesquieu). Intanto, a proposito del Campidoglio, Sade lamenta che vi restino "poche bellezze antiche completamente schiacciate dalle nuove", tanto che "questo celebre luogo" può essere considerato "soltanto al rango ordinario delle moderne bellezze di Roma" (204). Sade, dunque, è sensibile ai monumenti antichi, e quanto ai tuguri e alle casupole, qui, come altrove, semplicemente non li cita: e il silenzio, in questo caso, non mi pare meno eloquente d'una certa rottura (quantomeno) colla sensibilità più geometrizzante e prospettivizzante del suo secolo, i cui manufatti, del resto, assieme a quelli rinascimentali, egli non accetta a scatola chiusa, ma scrive, esattamente, che essi in certi casi possono addirittura "schiacciare" quelli antichi, evidentemente stimati di più. Ovvio, pertanto, che Sade, su Roma, sia in grado di concepire anche un passo come il seguente:

«(Delle terme di Tito) si vede ancora un avanzo di edificio, meglio conservato, poichè vi sono stati praticati dei piccoli alloggi, i  quali senza dubbio dipendevano pure dalle terme stesse. Vi si vedono i resti di un edificio rotondo, al quale non rimane più che un semicerchio (...) in cui sono delle nicchie dove si notano fori siano la prova del furore dei barbari nel distruggere questi edifici, abbastanza simile a quello dei barbari dei nostri giorni, i quali, non contenti di aver tolto a questi superbi monumenti il resto di splendore che non avevano potuto loro levare i primi, dopo essersi serviti di materiali ed aver tentato di distruggere tutto, lasciano ancora coperti di terra e di rovine gli infelici resti della più sbalorditiva magnificenza. Credono forse essi, attraverso questa barbarie, di cancellare con il loro lusso piccolo e moderno quest'inimitabile sontuosità degli antichi? Che non si facciano illusioni! Non ci riusciranno mai. I loro costumi, le loro conoscenze e la loro ricchezza stanno a quelle dei predecessori come le attuali rovine stanno ai loro poco sontuosi palazzi» (205).

Certo, il "settecento" sadiano, quale emerge da questo passo, non prelude affatto (come ancora si usa dire) magari al Romanticismo, e nemmeno, poniamo, al gusto piranesiano: Sade vorrebbe pur sempre che i grandi frammenti dell'antichità venissero ripuliti dalla terra e dalle rovine che li soffocano, dove ciò che - come detto - attrae Piranesi, è proprio questo squallore in cui giace quella grandezza. E tuttavia, non si può non notare come forse un'unica volta, nel corso del nostro studio, sia risuonata un'affermazione altrettanto polemica contro i tempi "moderni" (tutti, anche i rinascimentali): precisamente, quella del Goethe veneziano del 1787, a proposito della "decadenza" della tecnica del mosaico. In ogni caso, e quali che siano eventuali altri aspetti del gusto sadiano in apparente o anche reale contraddizione con quello visto qui, è certo che progetti sui monumenti antichi come quello di de Brosses sul Colosseo, già Sade non li concepirebbe più.

Così come, e a maggior ragione, non li concepirebbe un Goethe, il quale, anzi, parrebbe ormai d'accordo con chi intende rifare il monumento antico com'era: gli accade a Verona, nel 1786, quando loda il fatto che "a tempo opportuno si sostituiscano i gradini dell'Arena", che via via si deteriorano, "sicchè quasi tutti sembrano nuovi" (206). E un altro tipo di interventi sul "centro storico", egli approva (stavolta Goethe è nella cittadina veneta di Thiene):

«Vi stanno costruendo un edificio nuovo su di una pianta antica: sul qual fatto ci sarebbe anche qualche cosa da dire. così si rispetta in questi luoghi l'eredità del buon tempo antico, e si ha abbastanza buon senso per erigere sopra un vetusto disegno un edificio nuovissimo»

E' evidente che, a questo punto, qualsiasi filosofia puramente distruttiva, è superata.

Un gusto preciso, per quanto riguarda un particolare settore d'interventi, appare rovesciato. E infatti, Goethe, a Roma da soli sette giorni, può anche appuntare:

«Eppure, tutta questa meravigliosa massa di cose agisce su di noi del tutto tranquillamente, via via che si visita Roma anche solo per accostarci frettolosamente ai monumenti più insigni. Altrove, bisogna cercare ciò che ha importanza; qui ne siamo oppressi e schiacciati. Sia che si percorra la città o ci si fermi per via, ci vediamo innanzi paesaggi d'ogni specie, palazzi e rovine, giardini e luoghi incolti, sfondi e angiporti, casupole, stalle, archi trionfali e colonne, e tutto spesso così vicino che si potrebbe riprodurlo sopra un foglio solo. Bisognerebbe incidere con mille ceselli; che cosa può fare, qui, una sola penna? E la sera si è stanchi e spossati, per aver troppo visto e troppo ammirato» (207)

Dove va notato come uno degli elementi positivi di Roma, sia ormai l'essere la città proprio quella caotica "massa di cose" (antiche, medievali, rinascimentali, moderne) che, viceversa, tanto disgustava il Settecento: siamo già nel gusto di Chateaubriand, o addirittura del più tardo Gogol (208).

Ma certo nemmeno un Goethe basta a liquidare una sensibilità storica. Così, quella sensibilità perdura, e c'è ancora, per esempio, in Alessandro Verri, quando l'Antica Ombra Sdegnosa delle sue Notti romane, parla della "presente forma della città" in questi termini (termini che, evidentemente, Verri condivide):

«Gli edifizi vostri (cioè di voi moderni) sono invero spaziosi, ed i patrizi albergano in reggie smisurate più tosto che in abitazioni a privata famiglia convenienti. A quelle appoggia la plebe i suoi tuguri umili, cadenti, simili ad infermi pigmei accanto a giganti poderosi. Ma pur quegli orgogliosi palagi hanno più l'apparente che l'intrinseca vastità» (209)

Dove, se non è più rigorosamente settecentesco il rilievo sul vacuo gigantismo delle costruzioni moderne (210), settecentesca è comunque la citazione topica dei "palazzi" accanto ai "tuguri".

E settecentesco più che mai è uno squarcio, sempre su Roma, di Francesco Milizia, del 1781, che non può, a questo punto, non cadere a proposito:

«Roma ha ancora i suoi orrendi e scomodi vicoli nel più bell'abitato, e dove il concorso è maggiore, a Campo Marzio, alla Minerva, al Pantheon, a Fontana di Trevi, a S. Andrea della Valle, e dove richieggonsi strade più regolari e più spaziose, ivi sono rimaste più disagiate, e più oblique, e più anguste. Ella è ancora mancante di una nobile strada che dal Quirinale conduca al Vaticano; la sua strada Papale tutt'altro è che Papale. Le manca un vago ed arioso passeggio per l'estate; e potrebbe averlo facilmente se si radessero tutte quelle case che lungo il Tevere si frappongono da Ripetta al ponte S. Angelo. Che amena sponda diverrebbe quella se fosse ornata di doppi viali d'alberi interrotti da fontane, da colonne, con una corona di case tanto più maestose e dilettevoli, quanto ora sono ordinarie ed abbiette! E quell'ammasso di catapecchie che dalla mole di Adriano ingombra il più superbo tempio del mondo? Colla distruzione Roma diverrebbe veramente la regina di tutte le città, e niun'altra potrebbe farlo facilmente, poichè due buoni terzi del suo circuito restano vuoti» (211)

Dalla constatazione che i più "orrendi vicoli" si mescolano al "più bell'abitato", all'augurio d'una "nobile strada" che dal Quirinale conduca al Vaticano, al suggerimento di radere al suolo tutte le case lungo il Tevere da Ripetta a ponte Sant'Angelo, a quello infine di liquidare l'"ammasso di catapecchie" fra questo ponte e San Pietro, riconosciamo, in questo passo cruciale, non solo una "summa" di tutta la filosofia settecentesca su Roma finora veduta, ma anche un catalogo singolarmene preciso di tutte le operazioni essenziali sul "centro storico" della città effettivamente portate a termine, si direbbe proprio in base a quelle lontane suggestioni, negli ultimi duecento anni: la sparizione di fette intere di quel "centro", l'apertura di corso Vittorio, i lungotevere "piemontesi", e infine, via della Conciliazione (212). La sensibilità settecentesca ha battuto, in prospettiva, l'obbiezione romantica, restata evidentemente patrimonio di letterati e di umanisti, e mai diventata pensiero collettivo, e meno che meno, progetto politico.

Comunque, c'è forse un'ultima cosa da registrare, e cioè, il persistente "settecentismo" del solito Dickens anche a proposito di questa questione dei "centri storici" (ricordiamo che le sue Pictures from Italy sono del 1844).

Per esempio, Dickens torna più volte sulla "città vecchia" genovese, ma tutte le sue descrizioni in merito potrebbero benissimo essere ridotte ad un elenco di cose disgustose, già esaurientemente allestito dal Settecento, appunto. Si tratta infatti di "sporcizia generale", "disordinata disposizione delle case", "vicoli" (invece di strade larghe), "assoluta mancanza di uniformità" fra ogni specie di colori", "pochi usci lungo le strade", labirinto di straducole nello stato del più abietto squallore", case, oltretutto, "piccole", quartieri "sprovvisti di condotti di spurgo", ancora "bottegucce" che - "come vermi parassiti d'una grande carcassa" - si stringono, magari, "addosso al Palazzo del Governo, all'antico Palazzo del Senato e ad ogni altro grande edifizio" (213), ecc. E' chiaro che anche Dickens, a questo punto, non sarebbe affatto alieno, come Montesquieu, de Brosses, Milizia, da interventi puramente sventratori. Nè il suo atteggiamento muta a Roma.

A Genova, di nuovo, oltre che dei soliti "palazzi" affiancati dai "tuguri", parla, in più, di "viuzze prive di marciapiede", di "case che sembra non appartengono a nessuno, e non siano mai state abitate", e che, "fabbricate senza alcun piano", assomigliano a "fabbriche di birra abbandonate". Infine, una emblematica ripetizione:

«Faccia testimonianza ogni tetro palazzo antico della sporcizia e della miseria del vicino plebeo che gli sta accanto, le quali sono altrettanto innegabili, quanto le tracce che l'ala del tempo ha lasciate sulle mura patrizie del primo" (214).

Che è un asserzione il cui "democratismo" è solo apparente. In realtà, si tratta d'una pura e semplice riedizione "settecentesca".


(203) Antologizzato in PAOLO SICA, op. cit., p. 19-23.

(204) SADE, op. cit., p. 70.

(205) Ibid. p. 72.

(206) JOHN WOLFGANG GOETHE, Viaggio in Italia, cit., p. 467.

(207) Ibid. p. 487-488.

(208) Ibid. p. 582.

(209) "Per Gogol, lo straniero non vede già più le vie strette ed i vicoli della roma odierna, tutto compreso del mondo antico. (A Gogolo invece) "piaceva questa loro mirabile fusione in una cosa sola , le vestigia insieme di una capitale piena di vita e di una landa deserta: palazzi, colonne, erba e arbusti selvatici su pei muri: il brulicante mercato tra edifici cupi, silenziosi, mezzo sepolti (...). Gli piacevano gli inopinati contrasti che colpiscono a Roma". (GIOVANNI MAVER, Gogol in Italia, in "Civiltà", III, 8, Milano, Bompiani, 1942, pp. 75-84).

(210) ALESSANDRO VERRI, op. cit., p. 250 (notte VI colloquio IV).

(211) Rilievo che infatti coincide con un passo molto moderno di GIACOMO LEOPARDI che richiameremo appresso.

(212) FRANCESCO MILIZIA, Principii di architettura civile, cit., p. 557.

(213) A proposito della continuità fra quelle che io ho chiamato filosofia settecentesca dell'intervento sui "centri storici" e certe operazioni ottocentesche e novecentesche, ANDRE' CHASTEL (Problemes d'urbanisme etc., vol. cit., p. 624), che sta pensando specificamente agli sventramenti parigini di Haussmann nell'Ottocento, specifica che questi (e a questo punto si potrebbero citare anche quelli piemontesi e fascisti a Roma) obbedirebbero più a progetti d'origine specificamente napoleonica (solo per i quali "la ville ancienne est une erreur dèstinèe a disparaître") che propri di tutto il razionalismo settecentesco, i quali ultimi se certamente rivelano anch'essi "un certain dèsire de bouleverser une structure urbane trop compliqèe et trop serrèè", non preluderebbero affatto "à la doctrine des larges tracès permettant à la fois une circulation rapide et de vues lointaines", che sarebbe la dottrina strettamente napoleonica. Resta comunque il fatto che anche questa dottrina napoleonica non nasce dal nulla, e le sue radici stanno esattamente in quella razionalistica, che percorre tutto il secolo, e con la quale, dunque, quella napoleonica sta in una continuità senza soluzioni. Si può ben dire, pertanto, che certi progetti moderni trovano le loro scaturigini nella filosofia razionalistica settecentesca, anche se si debbano accettare tutte le distinzioni possibili all'interno di questa filosofia.

(214) CHARLES DICKENS, op. cit., vol. I, p. 102.

(214) Ibid. vol. I, p. 110.


Theorèin - Maggio 2007